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Dalla Banda Ionica a Sanremo: Roy Paci e il suo Fuoco

65esima edizione del Festival di Sanremo: solito Ariston, solito palco, nuovo Carlo Conti, artisti misti, testi univoci, apprezzabili vocalità. Tutto nella norma, se non fosse per gli ideosincratici Biggio e Mandelli, in gara con la loro Vita da Inferno. Un pezzo diverso, teso all’ironia, al racconto beffardo della quotidianità italiana. Un duo comico e irriverente che approda sul largo spazio illuminato di Sanremo: ma “i soliti” non puntano esclusivamente sulla simpatia; per rendere musicale la loro comicità, si sono affidati alle cure di un produttore artistico che ha concesso all’elemento bandistico il primo posto nella sua vita (e non solo). Regia, i riflettori sul nostro uomo, di grazia: Roy Paci.

Foto di Antonio Triolo
Foto di Antonio Triolo

Il trombettista siculo per eccellenza, dai capelli brillantati e la furbizia nello sguardo, ha voluto fare le cose in grande: non solo accogliere piacevolmente l’invito della coppia di amici di vecchia data, con cui ha condiviso l’esperienza di un intero programma basato sulla world music e tutte le splendide evoluzioni che gli sono succedute, ma modellare la proposta ricevuta in modo tale da proporre una ricetta esplosiva, vulcanica. Per compiere questa missione, Roy ha plasmato un arrangiamento scoppiettante, reso materiale dall’Orchestra del Fuoco, per l’occasione in una formazione di dodici elementi. L’obiettivo: dare alla compagine sonora un corpo snello, capace di muoversi, di espletare il groove con coreografie di strumenti lucenti e suoni potenti, di produrre un sound denso e avvolgente come la lava che, senza ostacoli, scende dal cratere a valle. E chi, nella seconda serata di mercoledì 11 Febbraio, ha fissato occhi e orecchi sullo schermo del televisore, non ha potuto far a meno di collegare il rosso fiammeggiante delle giubbe al groove corposo che i dodici, Biggio, Mandelli, Roy e (questa un po’ meno, suo malgrado) l’Orchestra della Rai hanno prodotto. Se avete tenuto il tempo con la punta del piede sul tappeto, avete afferrato a pieno il concetto: a prescindere dalla gara, dalla competitività, dall’aspirazione, quella musica aveva lo scopo di far sorridere, non solo gli occhi, ma anche le orecchie, le mani e i piedi. Insomma: che Inferno sarebbe senza fuoco?

Durante l’esecuzione del brano, come in quel solo fantastico di Moanin’ (Tuttapposto, 2003), Roy ha deposto la bacchetta sul leggìo, e ha inanellato le dita con la tromba, ricordandoci che musicista legato a doppio filo all’essenza tastabile dell’armonia sia. Mentre i timpani delle orecchie godono di quel velluto così ricco di volute, ricordo ciò che era accaduto meno di trentasei ore prima.

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Foto di Antonio Triolo
Foto di Antonio Triolo

Seduta al tavolo tondo di fronte al balcone specchio di luce pomeridiana, rarità nell’inverno del grigio perenne, la penna riflettente tra le dita, combatto col telefono, dono immenso di tecnologia finissima (quando funziona): ho un appuntamento. Uno di quelli in cui sai benissimo che se arriverai puntuale avrai un bel calcio motore che ti farà finire in salotto a sorseggiare un bordeaux con cordialità: ma se tarderai, in questo caso per gli imprevisti terribili che le presunte infallibili macchine mostrano nella loro imperfezione di prodotto, una spada di Damocle penderà sulla tua testa. Tuttavia, nonostante il preambolo melodrammatico, c’è un lieto fine: ad aspettarmi all’altro capo della cornetta non è Charlize Theron, e io, per fortuna, non sono Silvano di Camera Cafè. La voce calda e leggermente nasale che sento provenire, finalmente, dal piccolo microfono del telefono cancella ogni cosa: Roy è musicale persino quando parla; basta quel suo tono allegro ad aprire la porta del salone e, in poche battute, siamo già comodi sul divano blu, a parlare di quell’immensità strabiliante che è la musica. I minuti scorrono sul tempo giusto e, più che un’intervista, sembra essere uno scambio culturale; come se io fossi una pittrice e, tramite le sue parole, dovessi immaginarne i tratti e delineare il suo profilo. Non lo guardo, ma lo ascolto: le parole sembrano consistenti come immagini; hanno un peso, una forma, un aspetto ben definito. Immagino, mentre mi racconta di questo progetto splendido che ha come nome Orchestra del Fuoco, che i suoi occhi astuti e scuri emanino una luce potente. Gli chiedo di descrivermi il carattere di quei dodici musici che lo accompagnano:

Una marching band possiede il suo significato principale nella propria essenza di “musica da strada”: essa invade lo spazio, abbatte tutte le pareti per essere vicina alla gente, per suscitare emozioni genuine, naturali. Per me l’elemento bandistico è come il fuoco: uno dei quattro principi primari che tengono in piedi la vita della Terra. La banda è l’alpha del mio alfabeto musicale: è Sud del mondo, tradizioni, sapore di casa. L’orchestra ha un compito: infiammare chi la ascolta, trascinarlo in un vortice d’emozioni che lo facciano sentire vivo e perfettamente in sintonia con ciò che lo circonda.  Così è stato con la Banda Ionica, oramai un po’ di tempo fa, così lo sarà domani, a Sanremo con i miei Biggio e Mandelli.

roy1Parliamo di Sanremo, di ciò che ha rappresentato per la musica italiana, di ciò che è oggi: per Roy è un’occasione chiara e decisa. Ha accolto l’invito del duo per portare avanti una produzione seria su un canovaccio che fa, volontariamente, ridere; insomma, senza avere la pretesa di essere i nuovi poetae vates, con onestà gli ideatori di Vita d’Inferno vogliono proporre un pezzo che faccia sorridere, senza però mancare di professionalità e alta caratura nella resa musicale dello stesso.

In definitiva: Sanremo è una sfida. Non per loro, non per voi, non per noi. Sanremo è, per me, la possibilità di vedere quanto il mio Io musicista possa essere versatile, per verificare se ho inteso che la musica non ha limiti, generi, etichette: è una prova di onestà, per appurare se ho afferrato che l’armonia di suoni e silenzi consecutivi è abito di cultura, e ha sfaccettature diverse quanti numerosi sono i popoli e le persone che si fanno corpo di risonanza di essa. Questo ho imparato dall’Africa, che ho sempre nel cuore e nella mente: questo ho imparato meravigliandomi di come le donne Baka riescano a far suonare il mare semplicemente percuotendolo. Sanremo non è un fine: è mettersi in gioco, ancora una volta.

Mi piace notare come la sua vocalità prenda, a tratti, una piega tenebrosa, quando riflette su come esprimere a parole il vortice ipercinetico che ha dentro, in perpetuo moto in chissà quale stanza del cuore. Non posso fare a meno di pensare che Roy, in quella stessa stanza, abbia un’Etna in miniatura, che ha trasposto nell’organizzazione dell’Orchestra del Fuoco. Quando gli confido, alternando alle parole il riso, questo pensiero, esplode in una risata eccezionale, che ha il sapore delle cose più intime e passate, che ci hanno accarezzato il muscolo rosso della vita in volte non così numerose. Ride di gusto, con naturalezza:

roy gridoE così mi hai sgamato, eh? L’Etna è la mia vita: è l’esplosione, il Big Bang che oggi mi ha permesso di mettere su una Big Band che abbia in sè il carattere di quel fuoco a pochi respiri da casa. Una leggenda africana dice che il suono originario del mondo prodotto dal ritmo dell’universo sia dato da una pelle battuta: così è anche per una marching band, che ha il suono indeterminato dei passi ad accompagnare l’armonia delle note. Ricordo con piacere Luigi Russolo, il suo intona-rumori, e tutta la musica splendida che da questo pensiero si è originata (un esempio? John Cage). Per me i rumori sono importanti tanto quanto i suoni: sono tra la musica e il silenzio. Sono quella faccia della Luna che non si vede, ma che esiste e che ci condiziona. Sono quello che di disarmonico possediamo: però, se preso nel giusto modo, diviene la nostra forza.

Disquisiamo anche del silenzio: è cosa ben strana, si direbbe, perché quando lo dici non c’è più. Il silenzio esiste affinchè la pulsazione sorda della frequenza che ciascuno di noi produce possa trovare il suo posto nel mondo. Il momento del silenzio è il migliore per essere se stessi visceramente, dal profondo.

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Questo, prima dei saluti, è l’ultimo pensiero che le menti connesse formulano. Poi, il tu-tu continuo che decreta la fine di una chiamata, e il silenzio. Quel La bionico che dà il telefono mi ricorda la percussione, che vive dentro di noi. E penso: così come il battito dell’universo risuona da una pelle battuta, anche quello dell’uomo gli somiglia, avendo nel suo petto un piccolo timpano scatenato.

 

Foto dal web exc. Foto 1-2 by Antonio Triolo

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