L’attesa del concerto è così grossa, sabato 20 dicembre, che troppe sarebbero le cose da dire: troppi gli sguardi incrociati, troppe le parole nell’aspettare, troppe le stelle in cielo su quel piccolo angolo di Paradiso con sembianze di terrazzo sito in Via Crocerossa 33.
Sono le 00:15 quando l’avellinese Gianluca Piraniello calca il palco del Retronouveau: intorno a lui, una corista dalle forme forti e ben segmentate, da atleta, un chino tastierista, un riflettente batterista e un ondeggiante bassista. Insomma, ci sono tutti: Lupin, Zenigata, Jigen e persino Margot. Di falso e ladruncolo, però, i musicisti che seguono Ghemon nel suo OrchIDEE Tour, non hanno nulla: tutti sono lì per raccontare quelle storie quotidiane come il pane che il nuovo disco del rapper amante del giusto beat contiene, con sicurezza.
Man mano che quest’album appellato come il fiore della natura e dell’uomo viene snocciolato alle orecchie dei tanti che seguono il ritmo battendo le mani in bellissime architetture di piramidi, mi accorgo che le cose dette da quest’uomo dall’aria vagamente somigliante a Danny Boodman T.D. Lemon Novecento sono piccole e indistinguibili come i decori impressi sulla camicia che gli copre il torace, e le braccia.
Ghemon coinvolge, trascina, attira il pubblico a sé, eliminando la parete fra palco e parterre, fra musicista e ascoltatore. «Questa è una festa, e dobbiamo divertirci tutti insieme»: chiama tutti a raccolta, anche i neofiti della sua musica e i più recalcitranti, con spesse battute di funky, e lontani richiami di bossa che echeggiano in un “pezzo vecchio”, segno di quello che è stato e di ciò che c’è ora. Il fiume della voce, incalzato da milioni di sillabe tutte strette in un respiro di passione, non sembra conoscere né affanno né noia: si ciba di se stesso, e questo basta.
Quelle scarpe nere sorrette da spessa gomma bianca si muovono molto: i piedi hanno anche una testa, sorretta da un collo che si direbbe invertebrato, roteante attorno al microfono, unico punto fisso in quel muoversi continuo. Le mani, assistite dalle braccia, descrivono assi cartesiani tra il legno sotto i suoi piedi e il cemento sopra i capelli, tutti intenti a seguire l’ordine impartito loro dalla cera. Accenna onde voluttuose, inanellando le dita col cavo morbido del ricettore-amplificatore di voce e suono.
Ancora il basso intermittente sull’opportuno groove e i colpi di rullante in levare lasciano sulle papille il sapore delle cose attese e finalmente arrivate: le luci calde, tra l’arancione ed un acceso purple, ben caratterizzano le atmosfere deep che canta. Alla musica intervalla vibranti monologhi, in cui si racconta, si fa conoscere, si mostra, dando vita ad uno spettacolo dal gusto spontaneo ma dalla sapiente composizione. «Non è che se stai sul palco sei un supereroe: non è così, e se c’è qualcuno che ve lo fa credere è solo un rincoglionito»: questa stoccata decisa alla difficile e annosa questione della fama avvia lo spettacolo verso il silenzio.
Ghemon, accompagnato da Alessia, si ritira: esce fuori. Sul palco, rimangono i musici, che deliziano tutti con un solo ricco e di elevata caratura; la posizione in cui sono disposti sul palco ricorda un angolo ottuso: mai visto cosa ottusa tanto intelligente. Dopo urla d’obbligo e fragorosi battiti di mani sull’ultimo groove generato da dita ben coscienti, tra cui si avverte sempre l’invitabile, sporadico, ma simpatico, fuori tempo di qualche paio di palmi, riappare, ancora più grintoso, per un bis e un tris.
Un direttissimo e ridente “Minchia, questa è bellissima”, mi lascia godere divertita della piacevole sorpresa che ha nome Ghemon. Non è necessario sapere altro, sul suo conto. «Nessuno vale quanto te», ripete più volte; e non c’è miglior modo di essere stessi, con valore, mostrandosi colmi di sincerità e umiltà, sprovvisti di inutili connotati.
Foto di Gianmarco Vetrano