Correva l’anno 2009, e Luca Guadagnino arrivava al Lido con Io sono l’amore (I Am Love), presentato al concorso “Orizzonti” della 66ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Il film venne fischiato dai critici nostrani ma all’estero piacque parecchio (il leggendario critico statunitense Roger Ebert gli assegnò quattro stelline su quattro), come spesso accade ai cineasti italiani con uno spiccato senso estetico che travalica i contenuti. In sostanza, con Io sono l’amore Guadagnino conquistò la fiducia dei cinefili all’estero, mentre in Italia continua a portare il terribile marchio di “regista di Melissa P.“.
Destino analogo sembra toccare A Bigger Splash – dal 26 novembre nelle sale italiane – anch’esso presentato a Venezia (stavolta nella selezione ufficiale), anch’esso con Tilda Swinton a capo di un cast che definire cool è dire poco (Ralph Fiennes in versione produttore discografico cocainomane, il bello e bravo Matthias Schoenaerts e la it-girl Dakota Johnson), anch’esso accolto in modo contrastante dalla critica: fischi dopo la proiezione stampa, standing-ovation per regista e cast in conferenza stampa, e infine ancora fischi del pubblico alla premiére in Sala Grande. Ma qual è il motivo di tale schizofrenia?
Innanzitutto, l’enorme divario fra le premesse e il risultato finale. Sulla carta, A Bigger Splash è un remake de La Piscine, film del 1969 diretto Jacques Deray (e con l’equivalente dell’epoca di un cast cool: Romy Schneider, Alain Delon, Jane Birkin…), ma il film prende il nome dall’omonimo dipinto di David Hockney, e a detta del regista è questa la vera ispirazione per la sua opera. Un’ispirazione puramente estetica, quindi, che rende la semplice trama – un banale triangolo/quadrato amoroso – un pretesto per poter far mostra dell’impeto eccentrico di un regista che vuole essere pop senza rinunciare al citazionismo d’autore. La prima parte del film funziona proprio per questo: è come se Michelangelo Antonioni avesse girato un episodio di Beautiful con attori bravi, e il risultato è divertente e allo stesso tempo straniante. La sceneggiatura è una mera impalcatura (nemmeno tanto solida) sovrastata dall’imponenza della location – la meravigliosa isola di Pantelleria – e della soundtrack. L’evento che sconvolgerà la vita dei protagonisti arriverà senza alcuna evoluzione drammatico-emotiva, dopo una lunga sequela di inquadrature pretenziose, nudità – soprattutto maschili – esibite senza fare sconti, brani dei Rolling Stones sparati a tutto volume, dialoghi inconsistenti, personaggi privi di spessore e relazioni che si sviluppano senza alcuna tensione, il tutto tenuto sorprendentemente insieme da una scelta stilistica coerente e dal talento naturale di un cast sfruttato al minimo del suo potenziale.
Ma il peggio arriva nella seconda parte, dove l’estetismo esasperato va a cozzare con un’improvvisa quanto stonata pretesa di critica sociale, un tentativo malriuscito di satira farsesca. Ad incarnare questo anti-climax è il personaggio interpretato da Corrado Guzzanti, un maresciallo dei carabinieri che, come hanno sottolineato in molti, sembra uscito da una barzelletta scadente. Da quando entra in scena sembra di guardare un altro film, Antonioni si alza dalla sua sedia e lascia il posto a René Ferretti, e nonostante il film non si sia mai retto in piedi fin dall’inizio, riesce a sprofondare ulteriormente lasciando macerie dappertutto.
Probabilmente era tutto voluto, dall’assenza di impegno nel voler coinvolgere lo spettatore alla farsa finale, e magari un giorno il film di Guadagnino diventerà un cult. Un giorno, forse, ma per ora rimane un chiassoso disastro.
Voto: 5/10