Vocii sommessi e saluti di rito affollano la sala del Teatro Politeama Siracusa di Reggio Calabria, la sera del 10 aprile. All’entrata, a metà tra la luce dell’ingresso e la penombra trapunta di stelle del Corso, c’è chi si gode l’aria fortunata e senza vento, mentre un sottofondo di mood d’altri tempi riempie le orecchie. La serata è mite, ma non ancora calda del tempo d’estate: alcune donne, temerarie e non curanti della frizzantezza del tempo atmosferico, sfoggiano ai piedi sandali vertiginosi, che lasciano scoperte le dita accennanti moti di vario genere.
Ma la clessidra sgranella il tempo, ed è ormai il momento di accomodarsi in sala, di prendere posto tra le poltrone rosse, di mettersi in quella piacevole dimensione d’animo che realizza, tramite l’udito, volute meravigliose di pensieri.
Ancora si colloquia con gradevolezza, ci si scambiano, con sorrisi non prepotenti, notizie delle vite vicendevoli: e quasi nessuno si accorge che in fondo, dentro la cornice del palco, un uomo ornato di barba e capelli color spuma di maestrale si china sugli strumenti, li accarezza, li cura, per allestire la musica che, di lì a qualche minuto, verrà. Passa al principio inosservato, così, Lew Tabackin, sassofono e flauto d’oro del jazz dell’ultimo cinquantennio. Ma ecco che, d’improvviso, quel sottofondo suonato da chissà chi e quando si interrompe: luci basse, e un sax, solo. Si inizia, e lo si fa in grande stile.
Dopo giri infiniti di calore dorato, prendono posto sul legno scuro musicisti di cui, già dal loro incedere sicuro e leggero, si percepisce la levatura artistica, ed umana.
Già dagli assaggi tratti dalla produzione personale del sassofonista si carpisce che quello che si ascolta, con gli occhi sgranati ed un ritmo costante sulla punta del piede, è nient’altro che jazz, di quello buono e puro, concentrato. Anche un faretto, colmo di piacere per quella musica così full, esplode, non riuscendo a trattenere il groove assorbito. Si ride, e Lew saluta con maturità e ironia il pubblico, che gli sorride plaudendo. La sua voce è calma, rilassata, grave e calorosa, e chi gli sta di fronte pare che ne sia incantato. Questo gesto, che di poco conto può apparire, in realtà accende ancor di più gli animi e lascia libero accesso al mondo dell’armonia.
Dopo poco, incede di fronte agli astanti un trombettista, dalla cui fronte distesa si intuisce la giovane età. Viene accolto da Lew con grande stima: dopo pochi minuti, sono entrambi sommersi dalla musica reciproca di sax e tromba, che si arrovella in incastri polifonici da brivido. Così è per il meraviglioso brano del grande compositore Victor Young, pensato per la colonna sonora del film Sansone e Dalila, che si arrichisce di tonalità arabesche in una cornice esotica, così è per i due pezzi (sensazionali) di Thelonius Monk, Trinkle Tinkle e Monks Dream, che ci riportano a quella dimensione del jazz da scantinato.
Bisognerebbe creare un glossario apposito per tradurre in parole l’eccezionale timing di Roberto Gatto, sempre presente ma mai prepotente, che regala splendidi intrecci di pelli e metallo, salti leggeri tra mallet carezzevoli e spesse bacchette tenute con maestria. Per non parlare dei solo profondi e decisi di Giuseppe Bassi, che tira fuori dal legno mogano del contrabbasso note sommerse e sognanti. I dialoghi tra Lew e Alessandro Presti, talentuoso messinese della tromba, sono carichi di messaggi: si avverte la timidezza della gioventù davanti alla maturità; tuttavia, Lew lo invoglia a liberarsene, e a far sì che esprima quello che porta dentro.
Dopo i generosi bis, le parole di Roberto Gatto e di Lew nei confronti del pubblico che ha, con attenzione e godimento, accolto il flusso sonoro, riecheggiano di quelle storie immense che solo il jazz racconta, e che hanno avuto l’ennesima vita nuova nelle ginocchia, dagli ottimi riflessi, di Lew Tabackin, e negli arti in accordo del suo quartet.
Così, sfuma il secondo appuntamento della rassegna Jazz di Play Music Festival che, tramite l’Associazione Soledad, la direzione artistica di Alessio Laganà e quella organizzativa a cura di Giacomo Farina, sa regalare attimi intimi e di elevata godibilità. Chapeau, dunque, e lunga vita alle mille e mille sfumature di blue.
Foto di Marco Costantino