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Finché c’ho forza, tiro avanti: Alessandro Mannarino a 360 corde

Non vi aspettereste una scenografia di corde: cime di navi, forti e resistenti; ad esse, come sospese in un oceano di vuoto danzante, chitarre dal nylon sottile. Corde per tenere, corde per suonare, corde per comunicare, corde per afferrare, strappare, conservare, salvare.

Il pubblico aspetta, impaziente: non è il silenzio che vuole, né l’invadente brusio di voci sommerse che sostiene la sala del Palacultura di Messina in un continuo coro, che si placa e, poi, esplode in fragorosi cori che incitano il cantastorie ad occupare la scena. Ma la gente, ignara, non sa che il ritardo non è dovuto a frivoli sciocchezze d’artista, ma alla particolare e minuziosa attenzione di un uomo che, per quasi tre ore, ha smussato, corrretto, meglio veicolato la sua storia, affinché suonasse pura alle orecchie, agli occhi, alla bocca, alle corde del cuore degli ascoltatori.

I pochi minuti che hanno separato il sound-ceck dall’anabasi al palco vera e propria sono stati dedicati a noi “giornalisti”, o forse semplicemente “curiosi ascoltatori”, “dialogatori”.
Nonostante la stanchezza, il Cantastorie, abbellendosi di gentilezza, ha risposto con sincerità alle nostre domande, ristrette per via del tempo, che fugge e che va, ma non per questo prive d’intensità.
Con altri colleghi, piacevoli conversatori durante l’attesa, parla un po’ della sua storia: maturità classica, laurea in Antropologia, gavetta per i localini intorno alla stazione Termini; poi, la bossa nova, la musica capoverdiana, del portoghese imbastardito. Il dialetto romanesco, che è erede di una storia lunga e imbracciata dal potere, che è tramite di ricordi carichi e impregnati d’eternità. E poi, la Musica, che è più forte, che abbatte le barriere linguistiche. Parla del terzo album, di cui tematiche fondamentali saranno lo Stato, la Chiesa, il Padre, secondo Alessandro radici e fulcro del mondo e del modo di vivere. E quindi, un gioco d’eredità, di autonomia, di indipendenza, d’amore.
Narra dello spettacolo “Corde”, dell’importanza della chitarra quale soave strumento. Scherza anche sulla quantità di corde distrutte nella sua vita: la e re sicuramente le più malcapitate.

Poi, risponde alle nostre domande:

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Nelle tue canzoni, svaritati sono i riferimenti al vento; ha per te qualche significato particolare?
<<Come tutti, anch’io ho bisogno di credere in qualcosa. È come se avessi sostituito, come se avessi fatto del vento Dio. Oggi, ho fatto una passeggiata a Torre Faro; c’era tantissimo vento. E ho amato immaginare come in questa sfera trasparente ci sia sempre qualcosa che gira, che nessuno può fermare, che nessuno può estinguere. Il Vento.>>

Se dovessi trasformare i tuoi brani in dipinti, quali tonalità di colore useresti?
<<Ci sono alcune canzoni che sono rosse, come quelle di rivolta, d’amore. Poi, ce ne sono alcune che, invece, sono grigie, quasi in bianco e nero. Mi piace anche immaginare che siano dipinte da Chagall, con quei toni sublimi.>>

C’è un momento nella tua giornata in cui senti il bisogno di suonare?
<<Se ne sento il bisogno, vuol dire che non ne uscirà nulla di buono. Suonare non è un bisogno; è più un’esigenza. Un percorso propositivo che mira al miglioramento. Hai bisogno di mangiare, di bere. Nemmeno di “scopare” hai bisogno. Se ne hai bisogno, allora significa che qualcosa non va, proprio come accade nella musica.>>

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Ci salutiamo.
Cinquanta minuti dopo, lo vediamo sul palco, tra luci mozzafiato, accompagnato da musicisti eccelsi come Tony Canto, Fausto Mesolella, Alessandro Chimienti. La musica scorre tra “Supersantos“, “Bar della Rabbia“, passando per arrangiamenti meravigliosi. Si inizia con “Rumba Magica”; si passa per “Maddalena”, “Scetate Vajo”, la performance esilarante de “Il Pagliaccio”; e poi, “Soldi”, “Osso di Seppia”, “Marylou”, “Quando l’amore se ne va”, “L’ultimo giorno dell’umanità”, “Serenata Silenziosa”, “L’amore vero”, “Me so ‘mbriacato”. Infiniti i bis, tra i tanti giovani e meno giovani accorati, festosi, pervasi da quei ritmi lontani, caldi, allegri e malinconici. Anche “1908” di Tony Canto, tra i tanti brani suonati. Più che musica, sembra un “panspettacolo”: sì un’esibizione in cui tutte le forme d’arte vengono contemplate, dalla musica, al teatro, alla pittura; ma, soprattutto, un’esibizione che ha saziato, il corpo e il cuore.

Ed io, mischiata tra la folla, solo questo ho visto: emozione.

Foto di Antonio Triolo

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