
Ideato da Tohru Iwatani, mentre guardava una pizza dopo averne mangiato la prima fetta, fu una grande successo della scuola giapponese dopo Space INvaders. “Volevo fare qualcosa di diverso dalle battaglie spaziali”, racconta il suo creatore. Nell’anno di Shining e di Il nome della rosa, ecco cosa c’è dietro quei pochi pixel che hanno fatto impazzire il mondo
In cerca di biscotti, braccato dai fantasmi, in fuga attraverso labirinti sempre più pericolosi. Ad esser abbastanza abili da superarli tutti il conto dei livelli arriva a 256. Ma sarebbero stati molti di più se un errore di programmazione non avesse impedito a chiunque di andare oltre nel videogame Pac-Man. Oggi compie quarant’anni: il 22 maggio del 1980, fece la sua prima apparizione nelle sale giochi giapponesi iniziando un cammino che lo avrebbe trasformato in un’icona non solo degli anni Ottanta. Ne vennero venduti 100mila in pochi mesi stabilendo un record. C’erano sale giochi con intere file di cabinati tutti di Pac-Man.

Tohru Iwatani, classe 1956, non era al suo primo gioco ma non aveva ancora fatto nulla di indimenticabile. Una sera, uscito dagli uffici nella Namco nel quartiere di Ota a Tokyo, concepì Pac-Man durante una cena solitaria mentre guardava una pizza alla quale era stata appena tagliata una fetta. “Osservai quella pizza e vidi quel che poi sarebbe divenuto Pac-Man”, ricordò in seguito Iwatani quando ci parlammo cinque anni fa. “Ai tempi era pieno di videogame dove andavano in scena invasioni spaziali, dove si sparava a tutto e tutti. Io invece miravo a fare un gioco grazioso, semplice, che piacesse alle donne e che potesse esser giocato dalle coppie. E con un concetto di base: il mangiare. Avevo in testa degli elementi, ad esempio i cibi speciali che Pac-Man divora e che gli permettono, come capita a Braccio di Ferro con gli spinaci, di diventare così forte da dar la caccia ai fantasmi. Ma la loro è una relazione simbiotica anche se conflittuale, la stessa che lega Tom a Jerry”.

Gli anni analogici. Bisogna andare indietro con la memoria, o fare uno sforzo di immaginazione se si è nati dopo il 2000, per ricordare quei tempi. Il 1980 è l’anno della morte del maresciallo Tito, dell’elezione a presidente degli Stati Uniti di Ronald Regan, della strage di Ustica, dell’omicidio di John Lennon, del terremoto in Irpinia. Ed è anche l’anno della pubblicazione di Il nome della rosa di Umberto Eco. Alla radio continuava a dominare Video killed the radio star dei Buggles uscita nel ’79, mentre al cinema fra i campioni di incassi c’erano L’impero colpisce ancora, Shining, The Blues Brothers, Mad Max, Venerdì 13.
Quando il Giappone non era il Giappone. I videogame da noi erano già arrivati con Pong e Space Invaders ma nel 1980 si viveva in una realtà analogica. Il Giappone non era ancora l’incarnazione del futuro, né spaventava con il suo potere economico. Sol Levante, il romanzo di Michael Crichton, è di dodici anni dopo. Ma certo, alcuni indizi erano già visibili, cominciando dal walkman della Sony uscito nel 1979. Donkey Kong della Nintendo, dove compariva la prima versione di Super Mario, sarebbe invece arrivato nel 1981 e il compact disc nel 1982, assieme all’americano Commodore 64. Poi, nel 1983, sarebbe stata la volta della console Nintendo Entertainment System.
Venti anni dopo quel periodo venne raccontato a Tokyo, nella mostra Bit Generation 2000, come l’inizio dell’ascesa del Giappone ad alta tecnologia che avrebbe formato la prima “generazione dei bit” che con la Beat Generation anni Settanta aveva davvero poco a che spartire. “Il Giappone non era affatto cool nel 1980”, spiega oggi il curatore della mostra, Hiroshi Masuyama, esperto di cultura digitale. “Era un arcipelago non ancora scoperto dalla maggior parte dagli occidentali, come le Galapagos, isole delle quali si è sentito parlare ma che poi in pochi hanno visitato. Il primo grande videogame giapponese fu Space Invader del 1978: un tale fenomeno che nella maggior parte dei libri, film e documenti che abbiamo sulla cultura giapponese contemporanea inevitabilmente se ne parla. Fra i ragazzi divenne così popolare che le monete da 100 in yen necessarie per giocarci praticamente finirono. Pac-Man puntava ad allargare il pubblico. Ma la sua vera particolarità sta nel fatto che divenne famoso soprattutto all’estero”.
Il campione contestato. Non a caso il campione del mondo di Pac-Man, il primo ad aver raggiunto nel 1999 il massimo punteggio possibile di 3,333,360, è l’americano Billy Mitchell. Aspetto e attitudine sopra le righe, gilè damascati, cravatte vistose e capelli lunghi luccicanti di brillantina, ha ispirato il personaggio di Eddie Plant (Peter Hayden Dinklage) nel film Pixels del 2015 nel quale compariva anche Iwatani, interpretato dall’attore Denis Akiyama. Fu il grande rivale di Steve Wiebe, insegnante di scienze al liceo, mite, pacato e anche lui campione di Donkey Kong. In Pixels era Sam Brenner (Adam Sandler), anche se il miglior racconto del loro duello a colpi di record è il documentario The King of Kong: A Fistful of Quarters.

“Ho iniziato con i campionati di flipper per poi passare a Donkey Kong e infine a Pac-Man”, ha raccontato con orgoglio in una intervista del 2015. “Nel 1999 feci un comunicato stampa dove annunciavo che avrei raggiunto il massimo. Mi risposero che erano state giocare già dieci miliardi di partite nel mondo e nessuno c’era riuscito. Risposi: ma io sono Billy Mitchell”. Per arrivare al livello 256, quello che si disgrega a causa del bug, ci vogliono sei ore senza mai perdere la concentrazione e compiendo grosso modo lo stesso percorso nello stesso tempo ad ogni livello. Nel 2018 Mitchell è stato accusato di aver barato e tutti i suoi primati sono stati annullati dalla Twin Galaxies, l’organizzazione di riferimento per i record del cosiddetto “retrogaming”. Mitchell, che nel 2019 ha fatto ricorso, attualmente ha una catena di ristoranti in California, i Rickey’s World Famous Restaurant, e una linea di salse: le Rickey’s World Famous Sauces. Memorabile la una delle sue affermazioni: “Qualsiasi cosa dica è divisiva come il tema dell’abborto”.
Giochi di equilibrio. Il bilanciamento del gioco, in tanta semplicità, resta un esempio. Pac-Man mangia i biscotti, che adora. Li amano anche i fantasmi e per questo lo inseguono. Iwatani però non intendeva fare un gioco dove si era sempre inseguiti. E’ una condizione piscologica scomoda a lungo andare e questo lo spinse a creare le condizioni affinché i ruoli in certi momenti si potessero invertire quando il protagonista mangia determinati frutti. Il tutto richiese sei mesi di lavoro e, ovviamente, nessuno immaginava alla Namco che avrebbe avuto tanta importanza.
Entrare nella storia. Con oltre quaranta versioni differenti prodotte negli anni, Pac-Man è stato uno dei primi assaggi nella cultura di massa dell’era digitale giapponese e della sua scuola di videogame. E pensare che oggi una qualsiasi lavastoviglie smart ha una potenza di calcolo molto maggiore della macchina da sala giochi originale, con la differenza che difficilmente entrerà mai nella storia come invece ha fatto Pac-Man.
Fonte: repubblica.it