Ha imperversato nelle radio italiane con brani quali “Badabum Cha Cha” o “Stupido”, il suo è un rap di strada ed è uno dei talenti emergenti di un hip hop italiano che sta cambiando. “L’hip hop nasce come cultura multiforme: il writing per i graffiti, il breaking per il ballo, l’MSing che è il rappare, quindi il canto, e il djing, cioè fare il dj. Categorie, dogmi che sono un po’ superati, in alcuni casi le discipline si sono fuse, in altri sono semplicemente mutate”.
Marracash si prepara, con il suo ultimo album “Fino a qui va tutto bene” e il suo rap “di strada”, ad esibirsi questo sabato all’Espocentro di Bellinzona.
Tu fai parte di una crew, la Dogo Gang, quindi fai parte del mondo Hip Hop?
“La crew è un modo come un altro per definire la tua compagnia, nel nostro caso oltre che amici siamo anche un collettivo artistico all’interno del quale ci sono gruppi legati ad una major – come ad esempio i Club Dogo e me – e artisti meno conosciuti o gente che fa altro. L’hip hop è una cultura di strada, io appartengo all’hip hop come appartengo alla strada, anzi, a dirla tutta per me viene prima la strada dalla quale traggo ispirazione per i miei pezzi”.
Quindi la strada e l’hip hop sono strettamente legate?
“Non per forza. Nel mio caso la strada è stata fondamentale perché, assieme alla periferia, sono stati la mia formazione come individuo e come artista. Una sorta di artista verista perché è dalla strada che prendo spunto. Ma non è però una condizione imprescindibile. Fabri Fibra viene dalle Marche, dalla provincia, ha trovato comunque un sacco di contenuti e cose da dire”.
Secondo te quali sono i nuovi attori della musica rap nel panorama italiano?
“Tra i gruppi rap più seguiti fin ora ci sono Fabri Fibra, me e i Club Dogo”.
Con i Club Dogo hai un buon rapporto immagino, fate parte della stessa crew, ma con Fabri Fibra, che può essere considerato in un certo senso tuo antagonista, almeno per quanto riguarda il mercato musicale, qual è il tuo rapporto?
“Ho un buon rapporto con Fabri Fibra. Abbiamo anche collaborato ad uno dei singoli del suo ultimo disco. Potrebbe essere un antagonista, ma sul mercato ce ne sono così tanti che se dovessi individuare un “nemico”, sarebbe più facilmente un ragazzo dal nome comune uscito da un reality. Io rispetto chi si fa la sua musica da solo, chi è artista e non soltanto un interprete che non ha nemmeno fatto la gavetta e che viene buttato nel mercato discografico a cantare canzoni scritte da altri”.
Una sostanziale differenza tra artista e interprete?
“Un artista lo è perché crea qualcosa. Un interprete si limita a cantare una canzone scritta da altri e a vestire quello che altri gli dicono di vestire. Il pubblico, anche se non ha una grande cultura musicale, riesce a percepire l’aurea di un artista e a capire chi è autentico e chi non lo è”.
Il titolo del tuo ultimo album è “Fino a qui tutto bene”, ma in realtà all’interno delle tue canzoni emerge una critica alla società.
“In realtà anche il titolo nasconde una critica. E’ un po’ la frase che l’italiano si dice ogni mattina, una frase più auto-rassicurante che altro. E’ un modo per sottolineare che questo Paese sta precipitando, ancora non se ne rende conto, e si ripete che va tutto bene. Ma è anche una citazione presa dal film di Mathieu Cassovitz, L’Odio: la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: ‘Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene’. Ma il problema non è la caduta, è l’atterraggio”.
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