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Guè Pequeno pubblica «Mr. Fini»: «Questo album è il mio kolossal»

Il rapper lancia il nuovo disco, in uscita il 26 giugno: «Lo definirei sobrio, anche se ci sono temi vietati ai minori di 14. Esprimo ciò che sono e non scrivo testi di tendenza»

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«Questo album è il mio kolossal». Non c’è solo egotrip nelle parole di Gué Pequeno. «Mr. Fini», nuovo album che esce il 26 giugno, è una sfida alla scena rap italiana: il mondo gangsta si può raccontare anche con sfumature personali che rendono meno scontato l’immaginario macho-soldi-droga e con suoni meno da computerino e cameretta.


«Mr. Fini». Usa il cognome perché è autobiografico?
«No. Da tempo pensavo di usarlo in un titolo, come Lil Wayne con la saga “Tha Carter”: dà importanza. Ben diverso dal disco personale con il nome tipo “Mauro”… roba da looser, da perdente».


Lei è un cinefilo. Che film le fa venire in mente?
«C’è dentro lo Scorsese di “The Irishman”, per la lunghezza, e “Casinò”, per l’amarezza. Ma anche i film con Jason Statham e quelli di mafia. È cinematografico nel raccontare la parabola di un protagonista, dalla prima canzone che ci mostra un personaggio in stile Ray Liotta di “Goodfellas” all’ultima che ce ne mostra la paranoia».

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Sulla copertina è in abito bianco e accarezza un gatto: cita Adolfo Celi in 007?
«Certamente. Don Vito nel “Padrino”, il dottor Male di “Austin Powers”, nel cartoon dell’ispettore Gadget: il gatto è simbolo di potere gangsta».

Lei ce l’ha un gatto?
«Da piccolo Alì, era grassissimo. Adesso non è che li ami molto… Quello della foto sentiva l’ostilità».

Nei suoni ha abbandonato la trap di cui è stato uno degli importatori. E anche l’autotune è quasi sparito…
«Ho cercato di avere un suono senza tempo e ispirato da tutti tempi: anni 80, il reggae, anni 90. Non è un disco di tendenza, non volevo fare quello che fanno tutti».

Con «Sinatra» del 2018 sembrava fare la gara con i ragazzini emergenti della trap. Voleva vincere facile?
«Quel disco fotografava un momento storico, era ludico. Questo vuole rimanere».

Maturo?
«Artisticamente e tecnicamente sì. È in parte cupo perché riflette cose vissute negli ultimi anni. Ci sono temi più meditati rispetto al passato e nemmeno un episodio trash. Non arriverei a definirlo elegante, restano temi vietati ai minori di 14, ma sobrio sì».

L’hip hop cresce anagraficamente, sia per l’età del pubblico che dei protagonisti. A dicembre lei ne fa 40…
«È giusto che ci sia una trap fatta da e per bambini e un rap fatto da figure storiche per un pubblico adulto. Il bello di crescere, non direi invecchiare, è anche questo. Qui esprimo ciò che sono».

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«Il tipo» campiona «L’ultimo bacio» di Carmen Consoli. Mondi lontanissimi…
«Non ci sono temi offensivi nelle rime. Carmen è una stilosa e ha approvato».

In «Stanza 106» il protagonista dice di avere cervello e una parte intima in concorrenza…
«È l’eterno confronto fra razionalità e passione».

È il segnale che è pronto a mettere a posto la testa?
«Non ancora… Amo fare musica e viaggiare. Non penso alla sfera personale».

Ci sono molte citazioni geografiche. A partire dalla «Saigon» del primo singolo in arrivo.
«Sono sempre in mezzo fra una borsa da disfare e una da fare. Passo l’inverno in Sudamerica. Mai come durante il Covid sono stato fermo».

Lei vive a Lugano. Come è stato il lockdown elvetico?
«Il mese di chiusura mi ha quasi depresso… Per fortuna hanno riaperto subito. Ho sfruttato molto il lago e la natura. Ho letto moltissimo: Buzzati, Chandler, “I diari dell’eroina” di Nikki Six. Ho anche scritto un soggetto per una serie tv su teenager cattivi, ma non necessariamente storie di strada».

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Ispirazione musicale? Un pezzo a tema coronavirus?
«Che retorica… roba da serie C. Tirare dentro l’attualità nelle canzoni è un modo per attirare l’attenzione. E vista la drammaticità della situazione, non mi sembra il caso di strumentalizzare. Come accade con Black Lives Matter: vedo influencer che non hanno nulla a che fare con la black culture sfilare per George Floyd. Lo fanno per farsi ripostare sui social. In Italia il tema è meno sentito».

L’Italia è razzista?
«Lo si capisce dai cori allo stadio… Semplificando il discorso: in Italia il calcio è tutto, le tifoserie sono a destra, non c’è quindi da stupirsi dei risultati di Salvini. Non avremo mai un rapper nero al numero 1. Ghali è un fake. Appartiene all’universo fashion: non sarà mai un idolo del mondo di colore».

Oggi esce l’app «Mr. Fini – The Experience»…
«Non sono uno tecnologico, per nulla, ma questa app offre ai fan una serie di spoiler sui contenuti del disco in un ambiente interattivo».

FONTE: corriere.it

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