Giovedì scorso sono state annunciate le nomination agli Oscar, e il nostro Paese è rientrato nella categoria “miglior film straniero” dopo otto anni di assenza (l’ultima nomination fu nel 2006 con La Bestia nel cuore di Cristina Comencini). Ritorniamo fra i contendenti alla tanto agognata statuetta con un film che ha fatto discutere per tutta la seconda metà del 2013, e che sicuramente continuerà a far parlare di sé anche dopo la cerimonia, a prescindere da quale sarà il verdetto finale.
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è un film furbo: se da una parte il regista partenopeo punta in alto utilizzando al massimo la sua maestria dietro la macchina da presa e avvalendosi di un’ottima fotografia (per una produzione italiana, s’intende), di citazioni colte e di una narrazione apparentemente complessa fatta di visioni e allegorie, dall’altra, la trama quasi inesistente, la sceneggiatura banale e il moralismo spicciolo che sta dietro la critica alla borghesia radical chic e superficiale di Roma lo abbassa notevolmente di livello, rendendolo, essenzialmente, un film intellettuale che però si pone (involontariamente?) alla portata di un pubblico medio.
Questo non vuol dire che l’ultima opera di Sorrentino non abbia dei meriti. Alcune scene sono girate benissimo (la visita notturna di Jep e Ramona ai Musei Capitolini in compagnia del custode “amico delle principesse” è – a mio avviso – la scena più bella e di più forte impatto emotivo), e in generale il film si colloca parecchio sopra la media delle produzioni italiane. Purtroppo, però, i difetti sovrastano i pregi: tralasciando le tecnicità (la giraffa e i fenicotteri in CGI proprio non si possono vedere), la scena stessa dei musei viene contrapposta a quella precedente, dove una bambina viene costretta dai genitori sedicenti artisti ad eseguire un’agghiacciante performance d’arte contemporanea, con il significato implicito che la vera arte sia quella antica. E qui torniamo al discorso del moralismo: la critica alla borghesia romana, volgare e salottiera, che non sa cogliere ed apprezzare la grande bellezza della Città Eterna, ovvero la sua storia e le sue antichità, viene sviluppata con una parata di personaggi e situazioni improbabili, stereotipi e macchiette che, forse a causa di una recitazione perlopiù mediocre (a parte il sempre ottimo Toni Servillo), o per lo stesso volere del regista, non riescono mai a prendere vita. Il finale del film, con Jep che decide di abbandonare la vita mondana e superficiale per tornare all’innocenza delle origini, ricordando il suo primo amore scomparso prematuramente, è qualcosa a metà tra Il Grande Gatsby e Tempesta d’amore ma con meno pathos, perché se per tutto il film i personaggi vengono giudicati negativamente e rimangono piatti, affezionarcisi risulta molto difficile.
Ma il difetto più grande, che però è anche il motivo per cui La Grande Bellezza sia tanto apprezzato all’estero, è il suo continuo rapportarsi a La Dolce Vita: è come se, nella mente di Sorrentino, il film fosse stato concepito come un sequel del capolavoro di Fellini più che un suo omaggio. Il problema è che, nonostante i riferimenti espliciti (come la già citata scena finale) e la visione negativa della mondanità romana, non ci si avvicina nemmeno un po’, anzi, tutti questi elementi finiscono per rendere l’opera non solo disorganica ed opulenta, ma anche fastidiosamente pretenziosa.
Detto questo, Paolo Sorrentino rimane uno dei registi più talentuosi sulla scena italiana e non solo, e si spera che in futuro (magari portata a casa la statuetta) torni a sfornare film del calibro de Il Divo e Le conseguenze dell’amore.